lunes, 16 de septiembre de 2013

"La paranoia dello spazio protetto". Entrevista a Alessandro Dal Lago.

 
 
Riconoscere ai migranti diritti umani e civili totali, pari ai nostri
 
 

   Sindrome di Johannesburg. Quella che avvertono i ricchi, tutti i ricchi, del mondo, quelli che si spostano e si muovono nella città globale, ma che sentono la fortezza del loro benessere assediata e insidiata dai colpi d'ariete dei «migranti», siano essi clandestini, profughi, rifugiati, uomini in cerca di fortuna. Ai primi, nel sistema degli scambi globali, è concesso di esportare McDonald's, hamburger, persino bombe e guerre. Ai secondi, non è dato di nutrire pulsioni desideri, di venire a conquistare e provare la vita la dove la ricchezza c'è. Sono 120 milioni, in tutto il mondo, circa il
2% della popolazione mondiale, i migranti, una percentuale che non è cambiata molto rispetto agli anni Settanta. Cresce invece la loro evidenza, pericolosità sociale, segregazione, l'allarme diffuso sui loro movimenti e sulle loro pretese, perché muta la loro rappresentazione attraverso i massmedia e monta nell'immaginario collettivo la paura del nemico. 
   Si demonizza in loro lo straniero, colui che vuole invadere il tuo territorio.

         «Eppure viviamo tutti una condizione di nomadi e di migranti.
         Solo che alcuni hanno il passaporto per girare il mondo.
         Altri portano le stigmate di questa loro diversità»,  osserva Alessandro Dal Lago.

       «Il migrante è qualcuno che non ha libertà di movimento, anche quando questo    
         movimento vorrebbe praticarlo a fini parziali, magari per migliorare la vita, per 
        procurarsi un gruzzoletto».

Il sociologo, oggi preside della facoltà di scienze della formazione a Genova, al fenomeno ha dedicato molti anni delle sue ricerche compulsando non solo la letteratura ma intervistando testimoni diretti, acquisendo documentazione, analizzando per tre anni cinque quotidiani nazionali («Corriere della Sera, «la Repubblica», «La Stampa», «il Giornale», «il Manifesto»). Ne è nato per Feltrinelli il volume «Non-persone», l'analisi del percorso attraverso il quale la società esclude i migranti dal diritto dei diritti, la cittadinanza, presupposto stesso di ogni altri diritto, della stessa inclusione nell'«umanità», forma e sostanza - oggi - per fregiare l'individuo dell'etichetta di «persona».   

Dal Lago, tutto è riconducibile alla sindrome della fortezza?   
Sì. E' del tutto irrazionale nelle sue manifestazioni, ma l'idea si fonda sulla paura che noi, occidentali ricchi, abituati ai consumi, abbiamo che il benessere sia minacciato dal contatto con i migranti. L'aspetto irrazionale e paranoico è che ci tolgano il lavoro, che facciano violenza, che prendano il nostro spazio.   

Solo questo?   
No. C'è anche un estremo realismo, che attiene alle dinamiche del capitalismo globale. La gente non se ne rende conto. Un imprenditore paga un lavoratore 2-3 milioni al mese al lordo dei contributi, dove in Albania basterebbero cifre irrisorie. E questo permette all'imprenditore di realizzare forti profitti, e all'operaio di sopravvivere. Ma al tempo stesso la condizione perché questo esista è che l'albanese resti inchiodato alla
sua terra.   

Il migrante è il clandestino, il profugo, colui che va via dalla sua terra?   
Le figure si intrecciano. Si può emigrare per tanti motivi, per sfuggire a un'oppressione, per guadagnarsi da vivere, mi sembra difficile stabilire delle differenze. L'elemento comune è che provengono quasi tutti da paesi dispotici. E' una finzione giuridica quella che accetta a parole i profughi e invece sbatte fuori i clandestini perché migranti. Fino al 19 marzo 1997 quelli che scappavano dall'Albania erano profughi. Quando l'Italia ha capito che avrebbe dovuto accettare migliaia di profughi, un decreto legge li ha trasformati immediatamente in clandestini.   

Questa paura per colui che arriva da una terra diversa è sempre esistita. In
cosa cambia oggi?   
E' sempre esistita ma si va specificando nella storia. Non esiste il nemico in assoluto. Esistono invece forme paranoiche di protezione degli spazi sociali. In gioco c'è il fatto che, se il mondo ha da essere globale - e lo è per certi versi - allora dobbiamo accettarne le conseguenze, e quindi anche riconoscere i diritti a persone che vogliono vivere tra noi per lavorare. So bene, questo pone enormi problemi. Possiamo persino immaginare, allora, che un paese ponga dei problemi di limitazione. E tuttavia appare sconvolgente come questa paranoia sociale sia condivisa da tutti i settori politici e sociali del paese.    

C'è un grado diverso di opposizione al migrante tra i popoli del Sud o del
Nord?   
La linea è frastagliata ma va al di là della divisione Occidente-Terzo mondo. E' una questione di opposizione tra ricchezza e povertà, tra chi controlla le risorse e può accettare migranti e di chi si trova nella necessità di muoversi.   

Eppure oggi la situazione sembra precipitata...   
E' precipitata perché è morta l'illusione dell'universalismo, creato apparentemente nel dopoguerra. Esistono nuove forme di aggregazione politico-economica e militare che stanno spezzando questo guscio apparente.
Non si capisce bene cosa sia piú l'Occidente: Stati Uniti piú Nato, la Nato piú la Comunità europea, o che? Si stanno rimodellando i rapporti di forza nei confronti di un mondo che non è piú definito secondo i criteri tradizionali.   

Gli italiani sono piú escludenti degli altri popoli?   
Gli altri paesi europei hanno avuto a che fare con l'emigrazione da paesi con i quali avevano intrattenuti rapporti coloniali per molto tempo. Gli italiani, ultimi arrivati, appaiono i piú ingenui e, secondo me, anche piú duri perché ignari di tutta la questione. Abbiamo rimosso del tutto il nostro passato coloniale.   

Dobbiamo aprire le porte della fortezza, allora?   
Dobbiamo riconoscere ai migranti diritti umani totali, quindi civili e politici pari ai nostri, perché non si creino conflitti. Non valgono piú le considerazioni della ragionevolezza, tipo accettiamone pochi, diamo loro pochi diritti eccetera.
La via d'uscita è la totalità dell'assunzione della loro cittadinanza.

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